Non è per niente facile stare dall’altra parte, soprattutto se l’altra parte è quella della fragilità e del dolore, ma è paradossale che per essere più veri, spesso, quasi sempre, si deve passare dalla sofferenza.
Dall’altra parte è un libro scritto a sei mani da tre grandi medici i quali, improvvisamente, hanno varcato la soglia del “dall’altra parte” e, da medici, si sono ritrovati nei panni del paziente.
L’insorgenza improvvisa del male sconvolge la loro vita professionale e quella privata.
Inaspettatamente la malattia non è più da curare, ma anche da vivere sulla pelle. Dopo aver vissuto da medici le diagnosi più infauste, le terapie più devastanti, l’angoscia della morte e lo smarrimento di tutti gli ammalati gravi, adesso tocca a loro e raccontano così il tragico e il grottesco della loro esperienza, con sferzate decise ai loro colleghi medici, ignari di cosa significhi essere gravemente ammalato.
E così danno vita ad un decalogo, un codice etico per una medicina diversa, affinché la sanità, possa essere più performante, ma soprattutto più umana.
In questo meraviglioso decalogo deontologico, all’articolo 33 scrivono: “Il tempo della relazione con l’ammalato è tempo di cura”.
Ho molto riflettuto sugli ennesimi suicidi.
Nelle scorse ore è stata la volta di un giovanissimo carabiniere di ventidue anni originario di Campobasso.
Nei giorni scorsi è toccato a Laura, ragazza bellissima e talentuosa, nel fiore dei suoi anni, e mi sono documentato come tanti di noi.
Ho letto, come molti di noi, articoli stampa, pensieri sui social, cercando come un rabdomante risposte che non troverò e che non troverete mai, com’è già stato in passato e sarà in futuro, perché è impenetrabile la mente umana quando decide di porre fine al viaggio.
Il tragico evento, ha dato il via a pensieri e scritti con fiumi di inchiostro alla ricerca di un motivo; sociologi, colleghi e persino l’ex ministro Elisabetta Trenta hanno dedicato parole di cordoglio e vicinanza all’Arma, e tutti quanti, come sempre avviene in queste occasioni, hanno elencato una serie di possibili soluzioni.
Ci si interroga sul cosa si poteva fare prima, sul come, il dove, il perché, si raccolgono firme e si fanno promesse da marinaio in mezzo alla tempesta, per poi dimenticare tutto non appena tornerà bonaccia.
Anche a me, è capitato di vivere da vicinissimo un evento così tragico, la morte di un caro collega.
Anche in quell’occasione, solita indignazione, rispolvero delle statistiche, richiesta di ampliamento del servizio di psicologia, che già c’è ma se ne fa poco uso e di cui ci si fida ancora troppo poco.
In questi giorni si cercheranno moventi, colpevoli, motivi e cause, ci si porrà i soliti interrogativi inutili e sterili.
Ma, ritengo, che la spiegazione, non è da ricercare nella carenza del servizio sanitario, o in un deficit di professionalità, ma nella scarsa umanità.
Dobbiamo prendere coscienza, tutti quanti, che la nostra organizzazione deve riprendersi il “tempo!!”
Abbiamo tutti quanti la necessità di riumanizzare l’Arma e migliorare le nostre relazioni che sono la cura.
Oggi la velocità con cui affrontiamo le nostre giornate di lavoro ci obnubila e disumanizza, sempre di corsa dietro alle nostre check list per ricordarci impegni, perché per essere sempre performanti bisogna essere veloci, ma non abbiamo compreso ancora, che in cambio della velocità ci hanno regalato la superficialità e privato delle responsabilità.
Tutti noi abbiamo delle responsabilità istituzionali e morali, e dobbiamo riprendercele velocemente; soprattutto chi occupa posizioni di comando, ha l’obbligo delle risposte ai propri collaboratori e deve, per tanto, ricercare la causa delle cose.
“Causam difficultatum conoscere” come citava Virgilio.
Invece, oggi, si tende a non conoscere, a non voler comprendere per sfuggire alle responsabilità, perché voler sapere, impone lo scendere agli inferi, sentire il rumore delle catene della propria coscienza e non è facile poi affrontare il problema e dare delle risposte.
Dobbiamo ammettere i nostri errori, subito, adesso.
Non c’è più tempo.
Dobbiamo comprendere l’importanza dei nostri errori, a tutti i livelli, e abbracciare l’idea, che chi sbaglia non deve per forza conoscere l’umiliazione della punizione e dell’isolamento, perché difficilmente in futuro avremo chi si autodenuncia, chi ammetterà l’errore o una propria debolezza, o la malattia.
Finiremo per alimentare un esercito di uomini e donne predisposte a negare le loro difficoltà, per timore giustamente delle conseguenze, a chiudersi in se stessi e a non rischiare di essere giudicati, umiliati e inviati, come un plico con lettera allegata, per infermerie e commissioni mediche, e di casi purtroppo ne abbiamo moltissimi, giudicati con superficialità e per declinare responsabilità.
Dobbiamo convincerci tutti quanti, che non bastano solo le competenze tecniche; chi ha l’onore e l’onere di guidare uomini, deve avere intelligenza emotiva ed empatia, deve avere umanità!
Bisognerebbe introdurre queste materie in tutte le scuole di formazione, all’Arma.
Non servono burocrati vuoti, ma abbiamo la necessità di emozionarci nuovamente, come un tempo.
Nelle scuole bisogna trovare il tempo per ricercare nel volto dell’altro l’universo, il volto di Dio, come scriveva il sommo poeta.
I nostri padri costituenti così immaginavano l’istruzione.
Un tempo della formazione “sospeso”, non soltanto proiettato all’attività professionale, ma che fosse un tempo anche per l’esercizio del pensiero, un tempo per confrontarsi con discipline, valori e tecniche diverse, coniugando scienza e umanesimo.
Noi carabinieri siamo cellule staminali, abbiamo una grande capacità di rinnovarci e differenziarci e dobbiamo ricominciare subito.
Dobbiamo interiorizzare il concetto che non siamo onnipotenti, per questo rallentare e tornare a livelli umani. Anche la scienza più all’avanguardia si è arresa al fatto, che può avere allungato la vita, ma la morte comunque, arriverà e non la si può negare, anzi, bisogna imparare a valorizzare la vita, così come ha fatto il generale Pietro Oresta, perché dare valore alla propria vita e a quelle dei propri uomini, non fa trascurare la nostra missione.
Il fuoco sacro, che arde in ogni carabiniere, lo spingerà comunque a non sottrarsi al suo dovere, e di esempi ne abbiamo a centinaia, quotidianamente: per ultimo il nostro “zio” Carlo Le Grottaglie, che ha agito da carabiniere anche nell’ultimo giorno di servizio, come se fosse stato il primo.
Dobbiamo fermarci e scendere da questo treno in corsa, che ci sta lentamente alienando, e tornare a vivere delle cose più vere, di quelle che oggi sembrano eccezionali e invece sono ovvie.
È ovvio posizionarsi all’ombra durante un normale controllo della circolazione stradale, in una giornata estiva con 40°C all’ombra, è ovvio!
È ovvio che un comandante ti ascolti guardandoti negli occhi, dopo che sei stato punito e trasferito ingiustamente e l’hai dimostrato in tutte le sedi.
È ovvio che lui nel frattempo non si distragga alla ricerca dell’orpello in disordine o mancante, per rimproverarti che non hai la medaglietta del corso.
Deve pensare a ristorarti con il buon senso e l’empatia, non riuscirà magari a risolvere il tuo problema, ma deve ascoltarti veramente.
È ovvio!!
George Orwell in una sua frase celebre disse: “Siamo scesi talmente in basso, che il dovere degli uomini intelligenti è la riaffermazione dell’ovvio!!”
“Il tempo della relazione è tempo di cura”, e io aggiungerei che chi non ascolta commette omissione di soccorso.
Toni Megna, segretario nazionale del Nuovo Sindacato Carabinieri